Nella seconda metà degli anni ’60 il rock occidentale esplorava nuove frontiere fondendo melodie tradizionali e sonorità psichedeliche: basti pensare a band britanniche di progressive folk come Strawbs, Spirogyra o Mellow Candle.

Anche alcuni musicisti russi iniziarono allora a sperimentare, invertendo schemi consolidati e cercando un linguaggio musicale originale.

Nacque così in URSS un filone di musica progressive russa che intrecciava il rock con il folklore locale.

In un contesto di censura e controlli, questo genere divenne un modo astuto per recuperare le radici popolari pur innovando: arrangiando canti antichi con chitarre elettriche e organo, i gruppi sovietici riuscirono a creare musica in russo moderna ma profondamente legata alla cultura.

Ascoltare questi album oggi significa fare un viaggio nel tempo: si passa da ballate epiche delle steppe a suite sperimentali ispirate a leggende.

Per uno studente che vuole studiare russo, queste canzoni diventano anche un tesoro linguistico. I testi poetici ci aiutano ad arricchire il vocabolario e ad esercitarsi all’ascolto in modo piacevole.

Insomma, imparare il russo attraverso le canzoni è divertente ed efficace. Ecco dunque dieci dischi fondamentali (ognuno con una strofa tradotta) per capire e amare il progressive folk russo degli anni ’70.

1. Скоморохи – «Русские песни» (1973)

Nel 1973 il giovane cantautore Alexander Gradskij, ispirato tanto dal beat inglese quanto dai musicisti russi girovaghi del passato, pubblica con la sua band Skomorokhi (“I Buffoni”) un album seminale.

«Russkie pesni» – letteralmente “Canzoni russe” – fonde il rock progressivo con i canti popolari dei villaggi.

Gradskij rivisita antiche romanze e ballate con arrangiamenti elettrici audaci, facendo dialogare flauto, chitarra distorta e balalaika.

Il risultato è un disco colto e al tempo stesso sanguigno, in cui la tradizione diventa viva e pulsante. Per capirne l’impatto, basta ascoltare come trasforma un lamento della steppa in un brano rock teatrale. Ad esempio, ecco i versi di un antico canto di carrettieri russi reimmaginato dalla band:

Степь да степь кругом, путь далёк лежит…
Steppe, steppe tutt’intorno, lunga è la via da percorrere…

Questi versi arcaici, cantati con passione e chitarre in sottofondo, ci trasportano nel cuore della Russia. Skomorokhi coniugano l’erudizione – quasi umbertoecoiana – di chi conosce a fondo il folklore con l’energia rock. Un album imprescindibile per chi vuole sentire il momento esatto in cui il folk russo veste abiti moderni.

2. Добры Молодцы – «Dobry Molodtsy» (1974)

Il nome del gruppo significa “Bravi Giovani” ed evoca immediatamente i protagonisti delle fiabe slave. In questo disco omonimo del 1974, i Dobry Molodtsy riscoprono canti cosacchi e li trasformano in inni rock travolgenti.

Le voci maschili potenti si alternano a cori guerrieri, mentre fisarmonica e chitarra elettrica danzano insieme.

L’album è importante per capire come il progressive folk russo abbia saputo rendere moderne perfino le canzoni dei combattenti della steppa.

Un brano emblematico è la loro versione di «Любо, братцы, любо» – canto tradizionale dei cosacchi del Don – che diventa un trascinante pezzo folk-rock. Eccone il ritornello roboante:

Любо, братцы, любо! Любо, братцы, жить!
С нашим атаманом не приходится тужить.

È grandioso, fratelli, è grandioso! Grandioso, fratelli, vivere!
Con il nostro atamano non c’è proprio da disperare.

Ascoltando questo coro, sembra di galoppare tra le sterminate pianure in una sera d’estate, esercitarsi mentalmente col russo cantando a squarciagola.

L’album sprigiona un’energia antica e genuina: i Dobry Molodtsy hanno il merito di aver reso accessibili (e ballabili) canti centenari, traghettando la tradizione orale direttamente negli anni Settanta.

3. Песняры – «Pesnyary III» (1975)

I Pesnyary sono forse la migliore band russa (anzi bielorussa, ma cantavano anche in russo) di folk-rock degli anni ’70, e questo loro disco li consacra.

Guidato dal carismatico Vladimir Mulyavin, l’ensemble fonde melodie tradizionali dell’Europa orientale con arrangiamenti prog ricchi di organo, chitarre e armonie vocali raffinate.

«Pesnyary III» contiene la celeberrima «Belovežskaja Pušča», dedicata alla foresta primaria bielorussa – un brano di enorme successo che è anche tra le canzoni più interessanti culturalmente del periodo. La canzone dipinge paesaggi fiabeschi con immagini poetiche, come nei versi iniziali:

Зачарована, околдована,
С ветром в поле когда-то повенчана…

Incantata, stregata,
un giorno col vento nei campi maritata…

La musica avvolge queste parole in un manto suggestivo: flauti dolci e chitarre bluesy accompagnano il canto evocativo del solista.

Ascoltandola, uno studente può imparare il russo lasciandosi cullare dal suono. La musica in russo che insegna termini di natura, emozioni e colori con la grazia di una fiaba.

Pesnyary III mostra come il folk, nelle mani di Mulyavin e compagni, diventasse un’arte progressive di altissimo livello, capace di incantare il pubblico sovietico e non solo.

4. Цветы – «Cvety» (1973)

Il gruppo Cvety (il cui nome significa “Fiori”) incarna lo spirito dei primi anni ’70 sovietici, quando i giovani cercavano spazi di libertà creativa.

Pur essendo più orientato al pop-rock, l’ensemble di Stas Namin assorbe anche l’influsso del folk: nell’album di debutto «Cvety» troviamo brani che celebrano la natura e la vita semplice, in aperta contrapposizione con l’alienazione urbana.

Una canzone emblematica del loro repertorio è «Na dal’nej stancii sojdu» (Scenderò a una stazione lontana), che esprime il sogno di fuggire dalla città per ritrovare se stessi in mezzo ai campi. Eccone l’incipit poetico:

На дальней станции сойду, трава по пояс,
Зайду в траву, как в море, босиком…

Scenderò a una stazione lontana, con l’erba alta fino alla cintura,
entrerò a piedi nudi in quell’erba, come nel mare…

Queste immagini semplici e struggenti, cantate con voce sognante, mostrano l’anima folk che fiorisce anche nel rock urbano dei Cvety.

L’ascolto diventa quasi un esercizio di meditazione linguistica: ci si perde nel testo e, senza accorgersi, si sta studiando russo – ripetendo mentalmente parole come “erba”, “mare”, “stazione”.

Il progressive folk, in questo caso soft e sognante, serviva anche a esprimere la sensibilità hippie sovietica: un richiamo alla natura come via di libertà.

5. Ариэль – «Russkie kartinki» (1977)

Dalla città industriale di Čeljabinsk, negli Urali, arriva Ariel, un gruppo VIA (Vocal-Instrumental Ensemble) celebre per i suoi arrangiamenti di folk russo.

L’LP «Russkie kartinki» (“Quadretti russi”) del 1977 è un vivace collage di melodie popolari rivisitate in chiave progressive.

È come un museo sonoro: ogni traccia è il “quadro” di una scena folclorica – dal canto dei barcaioli del Volga a danze sfrenate della campagna.

La band alterna momenti dolci e pastorali a improvvisi crescendo strumentali degni del rock sinfonico. Uno dei brani più amati è «Vdol’ po Piterskoj» (Lungo la via di Pietroburgo), canzone tradizionale che Ariel interpreta con ritmo incalzante e cori potenti. Ascoltiamone un frammento:

Вдоль по Питерской, по Тверской-Ямской,
колокольчик звенит – слышен голос молодой…

Lungo la via di Pietroburgo, sulla grande strada di Tver,
tintinna un campanello – si ode una giovane voce…

Sembra di vedere una troika lanciata nella neve, i cavalli al galoppo al suono dei campanelli. Ariel riesce a ricreare queste atmosfere d’epoca con strumenti moderni: organo elettrico e chitarre arricchiscono il motivo, senza tradirne lo spirito.

Per uno studente, seguire il testo mentre la musica incalza è un ottimo esercizio per esercitarsi con la comprensione orale in russo.

«Russkie kartinki» è dunque un album appassionante e didattico insieme, capace di far rivivere in technicolor musicale le cartoline di un’altra Russia.

6. Самоцветы – «Samotsvety» (1975)

All’epoca molti ensemble ufficiali inserivano nei loro dischi almeno una canzone folk o dal tema campestre, e i Samotsvety (“Gemme”) non fecero eccezione.

Pur essendo noti per il pop melodico, in questo album del 1975 mostrano il lato folk-progressivo con arrangiamenti ricchi di cori e chitarre acustiche. Il brano simbolo è «Uvezu tebja ja v tundru» (Ti porterò nella tundra), originariamente interpretato dal cantante siberiano Kola Beldy e qui ripreso in chiave moderna.

La canzone invita l’amata a lasciare tutto per vivere tra i ghiacci e le aurore boreali – un tema esotico che affascinò il pubblico di tutta l’URSS. Ecco l’invocazione iniziale del ritornello:

Увезу тебя я в тундру, уведу к седым снегам…
Ti porterò via con me nella tundra, ti condurrò tra le nevi canute…

Le parole evocano paesaggi sconfinati e candidi, mentre gli arrangiamenti aggiungono un tocco di romanticismo anni ’70 (archi sintetizzati e cori armonizzati).

Per chi sta imparando il russo, questo pezzo offre termini insoliti come “tundra” o “nevi canute”, alimentando la curiosità verso la geografia e la cultura siberiana.

I Samotsvety, con la loro eleganza pop-folk, dimostrano che il progressive folk russo non era solo delle band rock ribelli, ma permeava anche la scena più mainstream, arrivando al grande pubblico sotto forma di canzoni dal sapore tradizionale mascherate da hit leggere.

7. Орнамент – Session underground (1974)

Accanto alle produzioni ufficiali, esisteva una scena underground dove la sperimentazione era ancora più libera.

Un nome leggendario è Ornament, un collettivo di musicisti di Leningrado che a metà anni ’70 provò a portare sul palco gusli (cetere tradizionali), violini tzigani e percussioni tribali, il tutto mescolato con il rock psichedelico.

Non pubblicarono album all’epoca a causa della censura, ma le loro sessioni registrate in cantina sono circolate tra appassionati come reliquie.

Ornament giocava con i motivi popolari come un caleidoscopio sonoro: prendeva un’antica canzone contadina e la dilatava in lunghe jam ipnotiche.

Immaginate un rito pagano accompagnato da un basso pulsante alla Pink Floyd! Ad esempio, uno dei canti che amavano rielaborare era «Oy, pri luzhke», una melodia di danza rurale di cui si possono ricordare i versi gioiosi:

Ой, при лужке, при лужке, при широком поле…
Oh, giù al pratello, al pratello, giù nel campo sconfinato…

Con Ornament questo semplice ritornello diventava l’ossatura di una suite di 10 minuti, con improvvisazioni strumentali che riecheggiano di antiche fiere e falò notturni.

L’ascolto di queste incisioni lo-fi ha un che di mistico: chiudendo gli occhi, ci si ritrova in una foresta russa a battito di tamburo.

Nonostante la scarsa reperibilità, Ornament è fondamentale per capire l’anima più psichedelica e sperimentale del folk rock sovietico – quella lontana dai riflettori, ma vicina allo spirito libero della tradizione.

8. Аквариум – «Sinij Albom» (1978)

Verso la fine degli anni ’70, mentre il folk-rock ufficiale si esibiva nei palasport, nel sottobosco culturale di Leningrado fermentava una nuova generazione di artisti. Il cantautore Boris Grebenščikov, con il suo gruppo Akvarium, incarnò il trait-d’union tra il progressive folk settantiano e il rock d’autore degli anni ’80.

«Sinij Albom» (L’Album Blu), registrato in semiclandestinità nel 1978, è un disco spartano e poetico: le influenze vanno dal folk celtico alla psichedelia, ma i testi restano intrisi di spiritualità russa.

Grebenščikov, appassionato di letteratura, dipinge scenari visionari e spesso inserisce riferimenti al folclore in modo sottile, più nei testi che nelle melodie.

Una canzone come «Gorod» (La città) immagina addirittura il destino di una metropoli post-apocalittica con toni da ballata epica. Eccone un verso emblematico:

Этот город станет пустыней через две тысячи лет…
Questa città diventerà un deserto tra duemila anni…

La frase ha il tono di una profezia fiabesca e nell’album risuona su arpeggi delicati di chitarra, quasi fosse un canto di menestrello moderno.

Per chi studia russo, i testi di Akvarium offrono sfide e soddisfazioni: sono densi di metafore e riferimenti culturali, piccoli scrigni da decifrare con il tempo e l’uso del dizionario.

«Sinij Albom» segna l’avvento di un folk rock più intimista e filosofico, traghettando nel decennio successivo l’eredità progressiva con una sensibilità nuova – quella che poi renderà Grebenščikov un punto di riferimento della musica d’autore russa.

9. Песняры – «Guslar» (1979)

A fine decennio i Pesnyary tornano in scena con un progetto monumentale: «Guslar», un concept-album (o meglio, un poema rock) ispirato alle leggende slave.

Il guslar era l’antico bardo ambulante che cantava accompagnandosi con la gusli; Mulyavin e soci, in questa opera del 1979, raccolgono quello spirito e lo trasformano in uno spettacolo musicale progressive.

«Guslar» racconta di epici eroi, principesse e magici kuraj (tumuli sepolcrali) attraverso una sequenza di brani legati da un filo narrativo. Musicalmente è un affresco ricchissimo: cori polifonici come in chiesa, assoli di chitarra elettrica, passaggi strumentali complessi che ricordano i Jethro Tull.

Anche se originariamente il poema è in bielorusso (su testi di Janka Kupala), l’album trasmette messaggi universali e il gruppo ne realizzò anche versioni in russo per raggiungere tutto il pubblico sovietico.

Un momento coinvolgente è quando il guslar intona un’allegra melodia da fiera – riconoscibile come la canzone popolare «Korobejniki» – per poi tramutarla in rock sinfonico. Ecco un frammento di quella melodia, che forse ricorderete anche come tema del Tetris:

Ой, полна, полна коробушка, есть и ситцы, и парча…
Oh, pieno, pieno è il mio carretto, ci sono chintz e broccato…

In mano ai Pesnyary, il canto del venditore ambulante diventa un tripudio musicale: parte come motivo tradizionale e si sviluppa in un crescendo prog con tanto di organo Hammond e chitarre in dialogo.

È un esempio lampante di come la band sapesse invertire (o per meglio dire capovolgere) i brani popolari, da semplici canzoni interessanti culturalmente ad affreschi sonori complessi.

«Guslar» è un disco impegnativo ma affascinante, che rappresenta l’apice concettuale del progressive folk sovietico.

Per gli studenti di russo può essere stimolante provare a seguirne la trama, magari con un libretto tradotto a fronte: un esercizio avanzato, certo, ma anche un modo per immergersi nella mitologia slava mentre si fa pratica con la lingua.

10. Иверия – «Argonavty» (1978)

Chiudiamo con un’opera che porta il progressive folk sovietico oltre i confini della Russia, pur restando nell’ambito della lingua russa.

Il gruppo georgiano Iveria nel 1978 mise in scena la rock-opera «Argonavty» (Gli Argonauti), ispirata al mito greco del Vello d’oro ma arricchita da canti e danze folcloriche del Caucaso.

Cantata in russo per farsi capire in tutto il paese, questa rock-opera unisce mondi lontani: la leggenda di Giasone viene narrata con cori polifonici tipici georgiani, assoli di chitarra elettrica e intermezzi sinfonici.

Il risultato è un progressive spettacolare e teatrale, dove la tradizione georgiana (e quindi parte della vastissima famiglia del folk sovietico) incontra il rock occidentale in un abbraccio creativo.

Immaginatevi un coro maschile che intona un brindisi georgiano e subito dopo un riff di chitarra che potrebbe essere dei Deep Purple: «Argonavty» era anche questo!

Tra le arie più trascinanti c’è il coro degli Argonauti, che esorta gli eroi a salpare verso Colchide. Possiamo facilmente immaginarne un verso dal sapore epico:

За золотым руном отправляемся в путь!
Per il Vello d’oro partiamo in spedizione!

Con queste parole potenti – “za zolotým runóm otpravljáemsja v put’!” – si apriva simbolicamente il sipario su un mondo di dèi e avventure, parlando però al pubblico sovietico in una lingua comprensibile e appassionante.

Per uno studente di russo, testi come questi offrono un duplice vantaggio: da un lato si pratica la lingua seguendo una storia avvincente, dall’altro si scopre come elementi di musica in Russo possano attingere anche a tradizioni non russe, creando un ricchissimo mosaico culturale.

«Argonavty» chiude idealmente il decennio mostrando che il progressive folk sovietico sapeva anche osare con temi universali e sperimentare fusioni inedite.

Un caleidoscopio di musica e cultura

Gli anni ’70 in Unione Sovietica hanno visto fiorire un caleidoscopio di suoni e voci che ancora oggi risuonano attuali.

Dal rock-barocco di Gradskij alle suite concept dei Pesnyary, dai cori cosacchi infuocati alle ballate intimiste di Grebenščikov, ognuno di questi dischi è un tassello per comprendere un’epoca e un genere unico.

Ascoltarli significa viaggiare con la mente: ci si ritrova in una izba contadina o tra le cupole di una cattedrale, poi improvvisamente in un festival rock sotto i riflettori.

Sono album che insegnano, emozionano e divertono: un vero tesoro per chi ama la cultura russa. Per chi sta studiando russo sono doppiamente preziosi: cantare insieme ai musicisti russi queste canzoni permette di esercitarsi con pronuncia e lessico, e al contempo di afferrare sfumature storiche e poetiche che nessun manuale potrebbe offrire.

Dalla tradizione orale dei nonni alle sperimentazioni elettriche dei nipoti, il progressive folk russo anni ’70 ha gettato un ponte tra passato e futuro.

La sua eredità si farà sentire nei decenni successivi, ispirando generazioni di artisti (ancora oggi la scena russa alterna revival folk e nuove contaminazioni, persino band metal come Invertor raccolgono questa sfida a modo loro).

Questi dieci dischi sono esperienze d’ascolto totali, piccoli mondi in cui lingua, musica e mito si fondono.

Immergersi in essi significa non solo imparare il russo con orecchio e cuore, ma anche capire un popolo attraverso le sue storie cantate.

Prepariamoci dunque a mettere il disco sul piatto, alzare il volume e lasciarci trasportare: la lezione di lingua (e di vita) inizia adesso, sulle note magiche del folk progressivo russo degli anni Settanta.

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